Introduzione

Queste pagine raccontano la trasformazione dell'economia italiana attraverso la lente dei rapporti con l’estero, da chiusa e periferica a post-industriale con forti legami commerciali e finanziari internazionali. Più in generale, gli argomenti trattati rimandano alla storia del Paese negli ultimi 160 anni: le guerre, il colonialismo, l’emigrazione, oggi sostituita dall'immigrazione, le oscillazioni delle politiche internazionali tra protezionismo e libero scambio, fino all’integrazione europea e alla globalizzazione.

Il percorso seguito dell’Italia – da condizioni iniziali di arretratezza relativa, allo sviluppo delle specializzazioni industriali e ai successi del boom economico, fino alle difficoltà e ai cambiamenti indotti dalla globalizzazione – è confrontato con quelli di Francia, Germania e Spagna, le altre grandi economie continentali che oggi condividono con noi la moneta e un destino comune.

Guardando alle sfide dell'attualità, insieme all’aumento della rilevanza economica del commercio internazionale, è possibile leggere la crescita degli elementi immateriali dell’internazionalizzazione: la produzione di beni e servizi intensi in conoscenza, i flussi finanziari, il ruolo delle imprese multinazionali nell’attività economica, le migrazioni, la contaminazione culturale e il multilinguismo, in particolare per i giovani.

Per motivi storici, tra i quali la maggior esposizione alla concorrenza dei paesi emergenti per molte delle proprie produzioni a bassa tecnologia, l'Italia ha affrontato questi cambiamenti partendo da una posizione di debolezza, non estranea alla stagnazione che ne ha caratterizzato l'economia nell'ultimo ventennio. Le evidenze presentate mostrano però anche una capacità di adattamento importante, che nonostante i ritardi e le zone d’ombra lascia ben sperare per il futuro.

Il commercio internazionale: un quadro d’insieme

Nel triennio 2017-2019, prima delle turbolenze che hanno caratterizzato il quadro macroeconomico a livello globale, il valore delle esportazioni di beni e servizi in Italia equivaleva a più del 30% del Prodotto interno lordo. Si tratta di un livello simile rispetto alla Francia e al Regno Unito (dal 2021 non più nell’Ue) e poco inferiore rispetto alla Spagna, mentre l’economia tedesca è commercialmente molto più integrata con il resto del mondo, nonostante sia quella di dimensioni maggiori. Considerando singolarmente l’export di merci, l’Italia è seconda dopo la Germania; per i servizi, invece, è la meno internazionalizzata del gruppo e con un divario crescente (Figura 1, sinistra). Corrispondentemente, Italia e Germania presentavano un surplus importante nell’interscambio di beni (nel nostro paese pari al 3% del Pil) e un leggero deficit nella bilancia dei servizi, mentre l’opposto accadeva per Francia, Spagna e Regno Unito (Figura 1, centro).

L'incidenza delle esportazioni sul Pil in tutte le maggiori economie europee è cresciuta lentamente nel corso degli anni Dieci. Nel 2020 è caduta bruscamente, per l'impatto sugli scambi della pandemia da Covid-19, mentre nel 2021-2022 è risalita oltre il livello raggiunto nel 2019, perché alla ripresa si è associato l'effetto inflattivo delle quotazioni dell'energia e delle altre materie prime sui flussi commerciali, attenuatosi solo nella parte finale del 2022 e a inizio del 2023 (Figura 1, destra).

Figure 1 Esportazioni di beni e servizi (sinistra; destra) e saldi (centro) in Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Media anni 2017-2019 e periodo T1:2015-T1:2023 (percentuali del Pil)

Questo è il quadro attuale, ma non è sempre stato così: per la quasi totalità della sua storia l'Italia è stata caratterizzata da deficit cronici nella bilancia commerciale che venivano compensati in parte da surplus nei servizi, particolarmente grazie al turismo. A far quadrare la bilancia dei pagamenti e attenuare la vulnerabilità finanziaria, soprattutto a cavallo tra '800 e '900 hanno contribuito notevolmente le rimesse degli emigrati, che oggi presentano un saldo negativo, ma anche investimenti e prestiti esteri non sempre facilmente accessibili. Oggi, invece, l'Italia è un investitore netto.

Inoltre, il rapporto tra valore del commercio estero e Pil per circa un secolo è stato molto modesto, anche perché condizionato da politiche relativamente restrittive [1]. L’incidenza delle esportazioni solo nella prima metà degli anni Venti del Novecento ha superato il 12% del Pil, cadendo bruscamente nei periodi di maggiore intensità del protezionismo come la guerra doganale con la Francia nel 1887-88, gli anni ’30 del Novecento - in cui si è intrecciato con la Grande depressione - e durante i due conflitti mondiali. La rilevanza degli scambi internazionali, oggi superiore di oltre quattro volte rispetto al livello dei primi anni post-unitari, è cresciuta quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra, col processo di multilateralizzazione degli scambi avviato nel 1948 con il GATT, l’istituzione della CEE (dal gennaio 1958) e, più recentemente, dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC-WTO; 1995) (Figura 2).

Figura 2. Italia: apertura internazionale e andamento in volume delle esportazioni. Anni 1861-2022 (esportazioni e importazioni di beni e servizi e saldi in percentuale del Pil; Indici dell'export in volume 1861=100 con deflatori di Pil ed esportazioni)

Nell'ultimo ventennio, come si vedrà più avanti, sono cresciuti a un ritmo molto elevato l'interscambio di servizi, gli investimenti esteri e l'internazionalizzazione produttiva, l'integrazione culturale.

Il commercio degli Stati preunitari

Il Regno d’Italia nasce nel 1861 - senza il Triveneto asburgico e il territorio dello Stato Pontificio ridotto ormai al solo Lazio - con l’unione di economie che erano rimaste ai margini della crescita che aveva caratterizzato l’Europa occidentale nel ventennio 1840-1860. Inoltre, con alcune eccezioni queste economie erano relativamente disconnesse tra loro: in ragione della relativa similitudine delle produzioni, della comune scarsità di potere d’acquisto e della pochezza delle reti di comunicazione terrestri, gli scambi inter-regionali pesavano per meno del 20% del totale del commercio estero dell’insieme degli Stati preunitari (per le esportazioni della Sicilia, appena il 5%). Molto diversa era però la potenza economica e commerciale dei singoli stati (Figura 3).

Figura 3. Il commercio estero degli Stati preunitari: valore medio annuo, composizione e rilevanza degli scambi inter-regionali. Anni 1850-1858 (milioni di euro ai prezzi 2015 e valori percentuali sul totale)

Il Lombardo-Veneto superava per capacità di esportazione tutte le altre aree del Paese, anche in termini pro-capite, e presentava un saldo commerciale positivo, prevalentemente grazie alla produzione serica, che costituiva quasi l’80% dell’export di questo regno. Fino all’inizio del ‘900, la seta ha rappresentato un elemento molto importante dell’export nazionale e un volano di sviluppo industriale per Lombardia e Piemonte [2]. Il Regno di Sardegna, secondo per volume degli scambi, presentava invece una bilancia sensibilmente deficitaria. I livelli di interscambio erano molto più modesti negli Stati pontifici e nel Regno delle Due Sicilie; è interessante però notare che in Sicilia l’export pro-capite fosse superiore a quello medio del futuro Regno d’Italia, e la bilancia largamente positiva.

Con l’unificazione furono aboliti i dazi per il commercio interregionale e il regime tariffario relativamente liberoscambista del Regno di Sardegna venne esteso agli altri Stati, esponendoli – in particolare nel caso del Regno delle due Sicilie – a una pressione competitiva forte [3]. Inoltre, nei decenni post-unitari gli scambi interni sono stati facilitati dai progressi sensibili nello sviluppo delle infrastrutture: l'estensione della rete ferroviaria, nel 1860 pari a meno di 2500 km, nel 1880 aveva superato i 9000 km.

Dall'Unificazione alla Seconda guerra mondiale

Al momento dell’unificazione, nel 1861 e negli anni successivi, il valore delle esportazioni italiane era una frazione rispetto alle economie europee più avanzate: meno di 13 di quelle tedesche, 14 di quelle francesi, oggi equivalenti, e appena 16 rispetto al Regno Unito, ormai superato. Superava invece di circa il 50% l’export della Spagna, che oggi va avvicinandosi a quello italiano. In rapporto al Pil, le esportazioni erano approssimativamente pari al 5% in Spagna, il 6% in Italia, il 10% in Francia, il 12% in Germania e il 15% nel Regno Unito.

Dal 1861 fino al picco del 1929 il volume dell’export in Italia (misurato in dollari ai prezzi del 1913) è cresciuto a un ritmo medio annuo del 2,9% (quasi il 600%), superiore a Francia (il 2,7%), Spagna e Regno Unito (entrambe il 2,1%), e inferiore solo alla Germania (il 3,4%), che alla vigilia della Prima guerra mondiale aveva ampiamente superato la Francia e raggiunto il Regno Unito [4]. I progressi relativi di questi Paesi possono essere letti anche in termini di sviluppo della capacità industriale, considerando l’evoluzione del peso dei prodotti primari [5], che nel caso dell’Italia - comprendendo anche la seta [6] - è passato da oltre l’80% a circa il 50% (Figure 4; 5).

Figura 4. Le esportazioni di Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito: andamento in volume (sinistra, scala log) e peso dei prodotti primari sul totale (destra). Anni 1861-1938 (milioni di dollari ai prezzi del 1913 e valori percentuali).

Negli anni Sessanta dell'800 le esportazioni, oltre che modeste, erano concentrate in un numero ristretto di prodotti, prevalentemente di origine agricola: la seta greggia ne rappresentava circa il 30% del valore; seguiva, con un peso di oltre il 10%, l’olio di oliva; tra gli altri prodotti di rilievo troviamo lo zolfo, essenziale per la polvere da sparo e di cui la Sicilia era il maggior produttore mondiale, e poi il corallo, la frutta a guscio (in particolare le mandorle), la canapa, e bovini, riso e grano [7]. Mentre l’industria serica aveva un forte radicamento territoriale in Lombardia, molte delle altre produzioni esportate provenivano dalle regioni del Mezzogiorno.

Nei decenni successivi si osserva un deciso e significativo spostamento a valle delle esportazioni, verso i filati industriali, i tessuti e i prodotti di abbigliamento. Contestualmente, guadagnano di peso anche le altre esportazioni manifatturiere, dalla chimica ai mezzi di trasporto, al cemento, e aumenta la varietà dei prodotti esportati all’interno dei singoli raggruppamenti merceologici (Figura 5). L’incidenza delle 10 voci più rilevanti da oltre 2/3 si riduce fino al 55% del totale a inizio Novecento e a poco più del 40% dopo la Prima guerra mondiale.

Figura 5. Composizione merceologica delle esportazioni dell’Italia per decennio. Anni 1862-1939 (quote percentuali)

La composizione per mercati di destinazione presenta fluttuazioni molto ampie e alcune tendenze di fondo, associate a quelle più generali nei livelli degli scambi (Figura 6).

Tra il 1862 e il 1883 le esportazioni erano dirette prevalentemente verso i paesi confinanti: la Francia da sola assorbiva il 35-40% delle merci vendute dall’Italia, e aggiungendo Austria e Svizzera si arrivava intorno al 70%. La Gran Bretagna era l’altro grande cliente (con una quota tra il 10 e il 15%) e il principale fornitore, originando circa un quarto delle importazioni. Nonostante le difficoltà sperimentate dall'economia a metà anni Settanta, in questo periodo le esportazioni crescono a un ritmo medio annuo in volume superiore al 3% utilizzando il deflatore del Pil (e al 4% col deflatore dell'export).

Tra il 1884 e il 1891 una parte dei progressi compiuti è erosa dall’affermazione quasi ovunque di tariffe protezionistiche e, a partire dal 1888, dallo scoppio di una guerra commerciale con la Francia, la cui quota sull’export dell'Italia tra il 1887 e il 1889 scese dal 37% al 17% del totale, e quella sull'import dal 19% all'11%.

La ripresa negli anni fino al 1913 è sostenuta, con un tasso di crescita medio annuo del 4% (il 4,3% utilizzando il deflatore dell'export). In questo periodo si assiste al progressivo aumento del ruolo della Germania, allo sviluppo del commercio transatlantico (in particolare verso Stati Uniti e Argentina, parzialmente associabile all’emigrazione italiana) e, complessivamente, a una maggiore diversificazione geografica dei flussi commerciali.

La Prima guerra mondiale azzera le vendite verso Germania e Austria-Ungheria, e nel 1917 il volume dell’export si riduce fino quasi al minimo del 1891. Con la pace il recupero è immediato, e negli anni Venti del ‘900 l’export cresce a un ritmo medio annuo del 6,4%. In questo periodo la diversificazione dei mercati si affianca a quella dei prodotti esportati: la quota delle dieci destinazioni principali è diminuita da oltre l’80% delle vendite nel primo decennio del secolo a poco più del 60% nella seconda metà degli anni Venti (Figura 6).

Figura 6. I principali mercati di sbocco delle esportazioni italiane (in alto) e andamento delle esportazioni in valore e in volume (in basso). Anni 1862-1943 (quote percentuali e indici base 1862=100; deflatori del Pil e delle esportazioni di beni e servizi)

Gli anni Trenta, segnati dalla Grande depressione, sono caratterizzati da spinte protezionistiche nella maggioranza dei Paesi. In Italia, il volume dell’export subisce una caduta importante fino al 1936 col deflatore delle esportazioni e un crollo verticale (fino al livello del 1871) col deflatore del Pil, per effetto della contestuale rivalutazione della lira, che determinava il deprezzamento in lire dei volumi esportati (v. nota metodologica), mentre gli anni precedenti il nuovo conflitto mondiale segnano un recupero parziale dei flussi [8]. In un quadro complessivo di contrazione del commercio internazionale va menzionato il ruolo delle colonie (specialmente l’Etiopia, conquistata a metà 1936) nell’assorbire una fetta rilevante dell’export nazionale: in questo periodo il ripiegamento degli scambi verso la propria sfera d’influenza è, d'altronde, un tratto comune alle maggiori economie (Figura 7).

Figura 7. Incidenza degli scambi con le colonie e con economie nella propria sfera d’influenza per alcuni Paesi selezionati. Anni 1929 e 1938 (percentuali sul totale di esportazioni e importazioni) (a)

Il processo di industrializzazione del Paese e l’evoluzione dei consumi sono leggibili anche attraverso la ricomposizione delle importazioni occorsa tra il 1861 e gli anni Venti del ‘900. Lungo tutto questo periodo, le importazioni di prodotti agroalimentari (in primis il grano) mantengono un peso dell’ordine del 30%, riducendosi solo nella fase autarchica precedente il secondo conflitto mondiale [9]. I movimenti principali riguardano la crescita dei semilavorati e delle materie prime per l’industria (le fibre tessili, i prodotti energetici, parte dei prodotti chimici) e, contestualmente, la forte riduzione dell’import di filati, tessuti e confezioni, per le quali l’Italia è divenuta nel frattempo esportatrice netta. Infine, cresce gradualmente il peso delle importazioni degli altri manufatti (in gran parte per il consumo finale) e di macchinari (Figura 8).

Figura 8 Composizione merceologica delle importazioni dell’Italia (in alto, anni 1862-1939) e andamento in valore e in volume (in basso, anni 1862-1942) (quote percentuali; indici 1862=100 a prezzi correnti e coi deflatori di Pil e importazioni di beni e servizi)

Le entrate doganali hanno rappresentato una quota rilevante e crescente sul totale delle entrate statali, da poco più del 9% negli anni Settanta dell’Ottocento caratterizzati da una politica tariffaria moderata, a valori stabilmente sopra il 15% nel periodo successivo, fino alla Prima guerra mondiale (Figura 9a). Nondimeno,fino agli anni Trenta l’andamento dell’import e la sua composizione appaiono condizionati solo in parte dalla politica commerciale. Infatti, a eccezione dei primi anni Novanta dell'800 le aliquote specifiche e il contributo delle tariffe su grano e manufatti sono rimaste complessivamente modeste, poco superiori rispetto ai casi di Francia e Germania, e oltre metà del gettito derivava, infatti, dalle importazioni di zucchero, caffè e petrolio. Negli anni Trenta, caratterizzati da un aumento del protezionismo su scala globale, l'Italia non fa eccezione (anzi, in parte ne anticipa i tempi). Tuttavia, accanto la retorica della "battaglia per il grano" e poi dell'autarchia (in particolare dopo le sanzioni per l'invasione dell'Etiopia) c'è una situazione complessa di gestione del disavanzo commerciale, in un contesto di sopravvalutazione crescente della lira per il mantenimento dell'ancoraggio all'oro (insieme alla Francia, al Belgio e altri Paesi minori del "blocco aureo") fino all'ottobre 1936, dopo le svalutazioni operate da Regno Unito e Stati Uniti già a inizio decennio (Figura 9b) [10].

Figura 9a Le entrate doganali nel periodo post-unitario. Anni 1862-1913 (incidenza percentuale sulle entrate tributarie e totali)

Figura 9b Prezzi al consumo, tassi di cambio e parità economica con sterlina e dollaro USA. Anni 1913-1939 (lire per unità di valuta; indice prezzi base 1913) (a)

Dal 1861 al 1939 i saldi della bilancia commerciale sono stati costantemente negativi, tranne che nel 1871 e, in misura minima, nel 1939. In generale, si osserva un peggioramento dei livelli dei saldi, reso possibile dall’afflusso di risorse finanziarie, che tocca il massimo nel corso della Grande guerra. Nella prospettiva dello sviluppo dell'industria locale è invece interessante notare la crescita del fabbisogno di combustibili e materie prime lungo tutto il periodo considerato, l'attenuazione dei deficit per macchinari e mezzi di trasporto e il passaggio da negativo a positivo del saldo per i prodotti tessili e dell’abbigliamento (Figura 10).

Figura 10 Contributi delle diverse categorie di prodotti al saldo commerciale. Anni 1862-1939 (punti percentuali del Pil) (a)

Il commercio di servizi, e i movimenti di persone e di capitale

A eccezione del periodo bellico, dall'Unità agli anni Trenta la bilancia dei servizi è rimasta costantemente positiva grazie al surplus del turismo, molto ampio rispetto al deficit stimato per i trasporti. Tuttavia, l’attivo dei servizi non era sufficiente a coprire i saldi negativi della bilancia commerciale, ai quali si aggiungeva il fabbisogno per il rimborso di prestiti esteri e il rimpatrio dei profitti sugli investimenti.

Il finanziamento di passività crescenti è stato reso possibile dai flussi di rimesse dall'estero. Infatti, insieme alle merci, le navi dopo l’Unità hanno trasportato anche milioni di persone, che mantenevano un forte legame con la terra d’origine e spesso speravano di ritornarvi con una sistemazione, inviando intanto danari ai familiari in Italia. Per l’intero periodo dall’Unità a oggi il numero di persone che non sono più tornate in Italia è valutabile in almeno 8,5 milioni, anche se non esiste una stima certa, soprattutto fino alla prima guerra mondiale, come di difficile quantificazione sono i flussi delle rimesse degli emigrati [11]. Per il periodo 1876-1913, Esteves e Khoudour-Castéras (2011) stimano un'incidenza media pari al 2,7% del Pil; utilizzando i dati ricostruiti sui saldi dei redditi da lavoro e dei trasferimenti unilaterali di bilancia dei pagamenti si può stimare un’incidenza delle rimesse nette tra lo 0,5 e l’1% del Pil fino al 1889, che cresce approssimando un valore medio del 4% nel primo decennio del Novecento, mentre altri studiosi, tra i quali Gomellini e Ó Gráda, propongono stime leggermente più elevate. Di fatto, dagli ultimi anni dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale le rimesse da sole appaiono di ampiezza tale da coprire buona parte dello squilibrio di conto corrente associato ai deficit nella bilancia commerciale e ai pagamenti per gli interessi sul debito e i profitti rimpatriati (Figura 11) [12].

Figura 11 Le rimesse degli emigrati e i saldi delle partite correnti di bilancia dei pagamenti: Anni 1862-1939 (saldi netti in percentuale del Pil)

L’impatto dell’emigrazione sull’internazionalizzazione e l'economia è complesso. Ha fatto da volano per l’export di alcuni prodotti – in particolare le specialità alimentari – destinati alle comunità espatriate, contribuendo ad aprire i mercati internazionali per questo tipo di beni. D’altra parte, ha generato redditi in Italia, spingendo i consumi e favorendo in questo modo l’import di beni altrimenti inaccessibili per mancanza di potere d’acquisto, inizialmente non prodotti in loco, ma anche lo sviluppo dell’industria locale al servizio dei consumi aggiuntivi e, in prospettiva, per l’esportazione. Ha, infine, contribuito ai trasporti marittimi e a iniziative di carattere finanziario, con l’apertura di filiali di banche italiane [13], la sottoscrizione di titoli del debito italiano e gli investimenti di ritorno degli emigrati più fortunati, dall’acquisto di case e terreni fino a iniziative di carattere imprenditoriale.

Parallelamente, l'Italia era destinataria netta di prestiti e investimenti diretti dall'estero (IDE). I prestiti hanno avuto una valenza strategica nel finanziare gli investimenti infrastrutturali nei primi decenni dall'Unità, quando le entrate statali erano insufficienti, e di nuovo nel corso della Prima guerra mondiale; d'altra parte, il debito pubblico - in particolare con l'estero - è stato uno scomodo compagno di viaggio, e in quest'epoca l'Italia ha avuto un accesso intermittente e non sempre facile ai mercati dei capitali [14].

Gli IDE, pure se relativamente contenuti, hanno fornito il capitale e le competenze per la nascita di attività in molti ambiti, dalle ferrovie, alla chimica, alle imprese bancarie e assicurative. I dati disponibili sono parziali e non danno conto pienamente del ruolo degli investitori esteri nello sviluppo industriale italiano, che nel complesso può considerarsi importante, anche se non risolutivo. Secondo le stime di Hertner (1981), i capitali investiti da non residenti nelle società per azioni tra il 1893 e il 1911 ammontavano a circa 700 milioni di lire (approssimativamente il 5% del Pil nel 1900). I fondi provenivano per circa il 30% dal Regno Unito, il 20% dalla Germania e, a seguire, da Svizzera, Belgio e Francia, con alcune specificità settoriali: ad esempio, la Gran Bretagna era relativamente più presente nei trasporti marittimi e nel settore estrattivo, la Germania prevaleva nelle ferrovie, la Svizzera nel tessile, la Francia nei prodotti della lavorazione dei minerali non metalliferi, compreso il vetro (Figura 12).

Figura 12 Capitali esteri investiti in Italia, per settore economico e paese d'origine. Periodo 1886-1911 (valori percentuali)

Tra le due guerre mondiali, l’Italia divenne anche un modesto investitore in alcuni paesi dell’Europa orientale, oltre che nelle colonie, mentre l’investimento estero e il finanziamento diretto del debito pubblico erano ridotti e in parte sostituiti dall’emissione di obbligazioni quotate sulle piazze internazionali. Nel secondo Dopoguerra, l’Italia ha attratto investimenti limitati ma crescenti soprattutto dagli Stati Uniti – in quel momento unica economia con disponibilità di capitali – dapprima nel settore della raffinazione petrolifera e poi nella chimica in senso largo (petrolchimica, farmaceutica, detergenti) e nelle industrie meccanica ed elettronica [15]. Si tratta di presenze settorialmente importanti anche se complessivamente contenute, così come contenuta era la presenza italiana all’estero.

Il dopoguerra e il miracolo economico (1945-1973)

Nonostante i danni alle infrastrutture e all’apparato industriale, il livello del Pil in volume già nel 1949 aveva superato il massimo prebellico del 1939. La crescita del commercio con l’estero è stata ancora più robusta, dopo il ripiegamento degli anni Trenta, in un contesto internazionale di forte ripresa degli scambi, favorita dalla creazione di organismi multilaterali per ridurre le barriere commerciali, dagli aiuti del Piano Marshall e, poi, dall’istituzione della CEE dal 1° gennaio 1958 [16].

Tra il 1951 e il 1973, anno della prima crisi petrolifera, le esportazioni di beni in volume sono quintuplicate se misurate col deflatore del Pil (e aumentate di oltre 10 volte utilizzando quello delle esportazioni) [17], mantenendo un tasso di crescita medio del 7,6% annuo per l’intero periodo e del 9,3% negli anni 1956-73. L’incidenza sul Pil – pure cresciuto di 3,5 volte, a un ritmo prossimo al 6% annuo, è aumentata da circa il 7% fino a oltre il 12%. In questo periodo, il ritmo di sviluppo è stato più che doppio per le esportazioni di prodotti di abbigliamento, della meccanica, di mezzi di trasporto, della raffinazione petrolifera, e quasi del 15% annuo nella lavorazione dei minerali non metalliferi, nella metallurgia, nella chimica e farmaceutica.

Nell’arco di poco più di un ventennio, la composizione delle esportazioni si è profondamente modificata, con un ridimensionamento sostanziale del ruolo dei prodotti agricoli, dell’agroalimentare e dell’industria tessile, anche se in un quadro di crescita sostanziale dell’export di tutti i settori, a eccezione dell’estrattivo. Il cambiamento forse più significativo è l’aumento del peso delle industrie metalmeccaniche, da poco più di un quarto del valore nel 1951 a quasi il 50% intorno al 1970. A questo exploit hanno contribuito la crescita dell’export di mezzi di trasporto (prevalentemente automobili e componentistica) e di macchinari, l’emergere degli apparecchi elettrici e per telecomunicazioni, lo sviluppo della meccanica di precisione. Inoltre, in questi anni si osserva l’affermarsi della specializzazione nelle calzature in pelle all’interno dell’abbigliamento, della produzione di materie plastiche e di prodotti farmaceutici nell’ambito della chimica, il consolidamento di un ruolo di trasformazione nell’industria del petrolio (Figura 13).

Figura 13 Composizione percentuale delle esportazioni (sinistra) e delle importazioni (destra) di beni. Anni 1951-1973 (quote percentuali)

Alcune aree di specializzazione affermatesi in questo periodo si sono rafforzate nei decenni successivi e a volte perdurano finora, mentre in altri casi hanno sofferto della competizione di prezzo delle economie emergenti o – nelle attività a maggior contenuto di conoscenza – delle maggiori capacità tecnologiche delle economie più avanzate (v. oltre, Inseguendo il cambiamento del mondo).

Negli anni Cinquanta e Sessanta le importazioni in valore sono cresciute leggermente meno rispetto alle esportazioni, portando a un miglioramento del saldo della bilancia commerciale, rimasto comunque negativo lungo tutto il periodo. La composizione dell’import si è modificata meno rispetto a quella dell’export, anche se con alcuni tratti comuni. Nel complesso, è aumentato il peso del petrolio (che ha sostituito il carbone come fonte primaria di energia) e quello dei prodotti metalmeccanici, metallurgici e chimici, compresi i rami “nuovi” degli apparecchi elettrici e per telecomunicazioni, della plastica e dei prodotti farmaceutici. Pur rafforzandosi il ruolo di economia di trasformazione dell’Italia, la quota dei prodotti primari nelle importazioni ha continuato a ridursi, per l’avanzata dei manufatti negli scambi in entrambe le direzioni (Figura 13). È in questo periodo che si afferma lo sviluppo del commercio intra-industriale orizzontale che oggi caratterizza gli scambi nelle economie più avanzate. Negli anni 1950-1970, inoltre, le nuove specializzazioni dell’industria italiana, insieme con la maggior capacità competitiva delle imprese, hanno favorito il miglioramento della bilancia commerciale nonostante l’espansione della domanda per nuovi prodotti esteri (Figura 14).

Figura 14 Interscambio di beni in volume (sinistra) e contributi settoriali al saldo normalizzato della bilancia commerciale (destra). Anni 1951-1973 (indici base 1961=100 e punti percentuali - medie di periodo)

A questi sviluppi ha contribuito in misura sostanziale l’evoluzione favorevole del contesto internazionale. In particolare, l'istituzione della Cee ha dato un impulso molto forte al commercio dei sei fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi): tra il 1957 e il 1969, partendo da un’apertura commerciale bassa, l’Italia è il membro che ha sperimentato la crescita più rapida dell’export; contestualmente, la quota della CEE sul commercio estero italiano è salita dal 24,9 al 42,5% per l’export e dal 21,4 al 38,7% per le importazioni (Figura 15).

Figura 15 Andamento dell’export nelle maggiori economie europee (sinistra, anni 1953-1970) e quota della CEE sul commercio estero dell'Italia (destra, anni 1957-1969) (numeri indice da dati in dollari; 1955=100 e valori percentuali)

La transizione difficile verso la modernità (1973-2022)

L’ultimo mezzo secolo di questo percorso è caratterizzato da un’ulteriore espansione dell’internazionalizzazione commerciale. Dagli anni Novanta, inoltre, alla liberalizzazione degli scambi e dei movimenti di capitale su scala globale si sono accompagnate l’entrata in scena della Cina, la crescita e la diversificazione dell’interscambio di servizi (nel quale l’Italia è progredita meno delle altre maggiori economie europee), l’accelerazione dell’internazionalizzazione produttiva e, per l’Italia, l’inversione dei flussi migratori, ora prevalentemente in entrata.

Dal punto di vista economico, come accennato sopra, si è trattato di un cammino accidentato. Come e più delle altre maggiori economie europee l’Italia ha subìto un progressivo declino del tasso di crescita del Pil e, soprattutto, ha sofferto della Grande recessione dal 2008 al 2014. A ciò si sono aggiunti gli effetti della concorrenza da parte delle economie emergenti nelle proprie aree di specializzazione, in prevalenza a basso contenuto tecnologico.

In questo periodo l’Unione europea si è progressivamente e significativamente allargata e ha continuato a trainare gli scambi del nostro Paese, ma con una diversificazione crescente delle destinazioni: la quota di esportazioni verso il continente europeo si è mantenuta intorno al 70% del totale (sia pure con fluttuazioni ampie legate soprattutto ai corsi dell’energia), ma quella di Francia e Germania è scesa da circa il 35% a meno del 25%, mentre sono cresciuti l’incidenza delle vendite verso la Spagna, i Paesi dell’Est e, su scala globale, gli Stati Uniti e le economie asiatiche emergenti: mentre nel primo decennio post-unitario i primi quattro mercati di sbocco rappresentavano oltre l’80% dell’export, a inizio anni 2000 questa quota si era dimezzata e negli anni più recenti è scesa sotto il 40%, e quella dei primi dieci mercati a circa il 60% (Figura  16).

Figura 16 Export dell'Italia per Paesi e aree geo-economiche di destinazione (alto) e incidenza sul Pil (basso). Anni 1971-2022 (quote e valori percentuali) (a)

Dalla crisi petrolifera all’uscita dal Sistema monetario europeo (1973-1992)

L’espansione commerciale è proseguita negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con un ritmo meno impetuoso rispetto al ventennio precedente. In questo periodo la performance esportatrice dell’Italia è stata analoga rispetto alla Francia e migliore rispetto alla Germania e, soprattutto, al Regno Unito, mentre la Spagna ha avviato il recupero del proprio ruolo nel commercio internazionale, partendo da condizioni di economia chiusa. Da notare la flessione dell’export in valore nella seconda metà degli anni Ottanta comune Italia, Francia, Germania e Spagna (Paesi "E4" - Figura 17, sinistra), e quella più ampia rispetto al Pil (Figura 16), che riflettono il deprezzamento del dollaro e la caduta delle quotazioni petrolifere. La bilancia commerciale italiana è rimasta deficitaria lungo quasi tutto il periodo, con aggravamenti importanti in corrispondenza delle crisi petrolifere del 1973-74 e del 1980. Nonostante la perdita di competitività di prezzo associata all’impegno di mantenere la stabilità del cambio in un contesto di inflazione costantemente più elevata rispetto ai partner, nella seconda metà degli anni ’80 il deficit si è ridotto notevolmente, fino a un sostanziale equilibrio della bilancia commerciale nel periodo immediatamente precedente la crisi valutaria del 1992, in cui il peggioramento dei saldi delle partite correnti non ha corrispettivo nel commercio internazionale (Figura 17, destra).

Figura 17 Andamento dell’export nelle maggiori economie europee (sinistra) e saldi dell’interscambio e delle partite correnti dell'Italia (destra). Anni 1970-1992 (indici base 1970=100 da dati in ecu/euro, e percentuali del Pil)

In questo periodo la crescita delle esportazioni è diffusa tra i settori economici. Il cambiamento nella struttura dell’export prosegue, ma a un ritmo meno intenso rispetto al ventennio precedente. Complessivamente, si conferma la duplice specializzazione italiana, a monte nei macchinari e nella metalmeccanica, e a valle nella filiera del tessile-abbigliamento, cui si accompagna ora quella dell’abitare. A livello settoriale, cresce il peso della chimica di base e dei comparti di gomma e materie plastiche, insieme a quello dei prodotti della lavorazione dei minerali non metalliferi (vetro, materiali da costruzione, piastrelle). Si afferma inoltre la specializzazione nei mobili e nei prodotti di arredo. Perde rilievo il settore agroalimentare e, seguendo il prezzo dell’energia, quello della raffinazione. Ha invece un’affermazione solo temporanea l’elettronica, che negli anni Ottanta matura attraverso un processo di selezione degli attori, mentre resta poco sviluppata la farmaceutica (Figura 18).

Figura 18 Variazioni settoriali e composizione delle esportazioni italiane. Anni 1970-1990/92 (variazioni percentuali rispetto al 1970 da dati in euro-lire e quote percentuali)

L’Italia in questo periodo segue l’evoluzione generale del commercio dei paesi avanzati, mantenendo la sua specializzazione orientata all’industria leggera, con un peso molto maggiore delle filiere di tessile-abbigliamento-calzature e di mobili, arredo, minerali non metalliferi (il made in Italy) e uno minore dei comparti industriali più complessi, a eccezione dei macchinari.

Inseguendo il cambiamento del mondo (1992-2022)

L'interscambio di beni

Nell’ultimo trentennio le condizioni di contesto del commercio estero sono cambiate radicalmente. Dall’uscita della lira dallo SME e fino alla fissazione delle parità per l’euro (dal settembre 1992 a fine 1997), le imprese italiane hanno beneficiato di un consistente deprezzamento del cambio. Negli anni successivi si è invece manifestata una progressiva perdita della competitività di prezzo e, fattore più importante per le produzioni tradizionali a bassa intensità tecnologica, è emersa con forza via via maggiore la concorrenza delle economie emergenti, a partire dalla Cina, che ha reso poco sostenibile il mantenimento delle produzioni di fascia medio-bassa e spinto le imprese in grado di farlo a delocalizzare in paesi con livelli di reddito inferiori le attività a maggior intensità di lavoro. Infine, nel contesto globale una parte della crescita dei flussi commerciali riflette l’allungamento e la frammentazione delle catene del valore e, d’altro canto, per alcuni paesi le esportazioni rispecchiano sempre meno un principio di “proprietà” economica dei beni, per la forte espansione del ruolo delle multinazionali nel commercio.

Come conseguenza, il peso delle economie avanzate nel commercio internazionale è diminuito a vantaggio delle economie emergenti, anzitutto la Cina (Figura 19).

Figura 19 Quote sulle esportazioni mondiali di beni di alcuni Paesi selezionati. Anni 1992-2022 (valori percentuali)

La performance esportatrice delle maggiori economie europee a eccezione della Spagna è ulteriormente rallentata dopo il picco del 2000. L'export dell'Italia è cresciuto più di quello della Francia ma meno della Germania, rispetto alla quale ha però recuperato il terreno perduto nel biennio di ripresa 2021-2022 (Figura 20, sinistra).

L’andamento dell’export, dopo l’accelerazione conseguente la fluttuazione della lira nel 1992, si è mosso con l'economia, con picchi ciclici nel 2000, nel 2007, nel 2018 (oltre che nel biennio 2021-2022, caratterizzato però da una forte spinta inflattiva), e cadute importanti coincidenti con la prima fase della grande recessione nel 2009 (-20%) e la crisi Covid nel 2020 (-9%) [18]. Corrispondentemente, i saldi commerciali mostrano tre fasi distinte: negli anni Novanta un primo, consistente periodo di surplus (fino al 10% il saldo normalizzato, misurato in rapporto all’interscambio complessivo), seguito da una fase di deficit tra il 2004 e il 2011 e poi da un nuovo prolungato ciclo di attivi commerciali, fino al temporaneo deficit del 2022 associato all'impennata dei corsi dell'energia (Figura 20, destra).

Figura 20 Andamento dell’export nelle maggiori economie europee e saldo della bilancia commerciale italiana. Anni 1991-2022 (indici base 1991=100 da dati in euro, e percentuali del Pil e dell'interscambio complessivo)

In questo periodo, l’andamento delle esportazioni ha risentito della performance negativa delle filiere tradizionali del tessile-abbigliamento-calzature, dell’arredo, dei prodotti di lavorazione dei minerali non metalliferi [19]. Per alcuni di questi prodotti il commercio internazionale è stato meno dinamico rispetto ad altri comparti industriali ma, soprattutto, l’Italia ha sofferto la concorrenza dei paesi emergenti assai più delle altre grandi economie Ue e in particolare della Spagna, che pure ha una specializzazione simile. In negativo, si osserva pure la perdita di terreno nell’export di elettrodomestici, il permanere del divario nei mezzi di trasporto e il suo allargamento nel comparto dell’elettronica, nel quale l’Italia ha un deficit di carattere strutturale. D’altra parte, la performance italiana è stata buona in alcuni comparti a rapida crescita, come il farmaceutico, dove ha colmato parte del ritardo rispetto a Francia e Germania, o l’agroalimentare, nel quale sono andate affermandosi le bevande. La performance esportatrice è stata migliore rispetto ai partner anche per i prodotti in metallo, gli strumenti di precisione, e nell’altra grande area di specializzazione dei macchinari e attrezzature, che si è ulteriormente consolidata (Figura 21).

Figura 21 Andamenti settoriali dell'export nei Paesi E4. Anni 1991 e 2021 (a sinistra: variazioni percentuali medie annue su valori in euro; a destra: quote percentuali sul totale)

Gli andamenti settoriali hanno determinato una riduzione dell’eccentricità della struttura delle esportazioni italiane rispetto alla media del gruppo E4 (in particolare, nei confronti di Francia e Germania) [20] e, soprattutto, si sono riflessi sui saldi, con una forte compressione del contributo delle esportazioni delle filiere dell’abbigliamento e accessori e dell’arredo, compensata da una progressiva riduzione del deficit nel comparto agroalimentare (fino al surplus degli ultimi anni) e di altre produzioni – dalla chimica, alla farmaceutica, agli strumenti di precisione – mentre si è mantenuto stabile l’apporto positivo dell’aggregato di macchinari e attrezzature (Figura 22).

Figura 22 Dissomiglianza della struttura dell’export dei Paesi E4 rispetto alla media (sinistra) e contributi settoriali al saldo commerciale dell’Italia (destra). Anni 1990-2021 (punti percentuali e percentuali del Pil)

L'interscambio di servizi

Il progresso tecnico e la rimozione di ostacoli di tipo normativo negli ultimi decenni hanno favorito lo sviluppo dei servizi tradizionali, quali trasporti e viaggi, e reso commerciabili internazionalmente servizi prima erogati solo localmente. A livello mondiale il ritmo di espansione degli scambi di servizi è stato superiore rispetto a quello dei beni, soprattutto a partire dagli anni Dieci; in particolare nelle economie avanzate, la tendenza è stata trainata dalle attività più moderne e intense in conoscenza, quali i servizi tecnici e di consulenza, di informazione e comunicazione, per i diritti di proprietà intellettuale, compresi all’interno dei c.d. altri servizi (Figure 23).

Figura 23 L’export di beni e servizi mondiale e dell'Ue27 (sinistra) e le diverse categorie nell’export di servizi mondiale (destra). Anni 2000-2022 (numeri indice base 2000 su dati in dollari e valore in miliardi di dollari) (a)

I progressi dell’Italia in quest’ambito sono stati molto minori a confronto con le altre maggiori economie europee, con un progressivo peggioramento dei saldi (Figura 24).

Figura 24 Il commercio internazionale di servizi dei Paesi E4: export in valore (sinistra), incidenza dell'interscambio (centro) e saldi (destra). Anni 1971-2022 (indici base 1970=100 su dati in ecu/euro e percentuali del Pil) (a)

Le ragioni di questi andamenti sono da rintracciarsi prevalentemente nella specializzazione italiana. Come in Spagna, questa è rimasta fortemente ancorata al turismo, i cui scambi sono aumentati meno che per i servizi nel complesso, hanno subito una concorrenza internazionale crescente e, più di recente, sofferto molto delle ricadute della pandemia, recuperando i livelli del 2019 solo nel 2022. In Francia e Germania, invece, hanno rapidamente guadagnato quote i servizi di Finanza e assicurazioni, ICT, licenze e brevetti e altri servizi alle imprese, che includono ricerca e sviluppo, consulenza tecnica e professionale, servizi di commercializzazione (Figura 25).

Figura 25 Composizione dell’export di servizi commerciali dei Paesi E4. Anni 2001-2022 (quote percentuali) (a)

Inoltre, nel nostro Paese si è aperto un deficit sostanziale nei servizi di trasporto, in gran parte legato al comparto aereo (dove il saldo normalizzato prima della crisi pandemica era pari a oltre un terzo del totale dell’interscambio). Nella componente a maggior intensità di conoscenza l’Italia ha mantenuto un disavanzo relativamente ampio e crescente nel caso dei servizi finanziari e assicurativi e di quelli dell'informazione e comunicazione. Il deficit si è invece chiuso per i diritti di proprietà intellettuale, mentre le attività di Ricerca e sviluppo presentano un saldo positivo crescente (Figura 26).

Figura 26 Saldi della bilancia dei servizi per componente (sinistra) e dettaglio sugli scambi di tecnologia (destra). Anni 2005-2022 (miliardi di euro)

In sintesi, a confronto con le altre maggiori economie Ue, in Italia si osserva nell’interscambio di servizi – come nel caso dei beni – una contrazione dei surplus negli ambiti storici di specializzazione (maggiore rispetto alla Spagna, che con l’Italia condivide queste caratteristiche) e un progressivo adattamento all’evoluzione degli scambi globali verso prodotti a maggior contenuto tecnologico e di conoscenza, che trovano Francia e Germania in una posizione più favorevole. Salvo eccezioni, l’interscambio di servizi in Italia è cresciuto più lentamente anche per il basso livello d’attività della nostra economia: questo ha contribuito a contenere deficit che, altrimenti, avrebbero potuto essere assai più rilevanti, ma ha probabilmente anche scoraggiato lo sviluppo di attività, quali i servizi informatici e tecnici, in grado di competere internazionalmente.

Le rimesse verso l'estero

L’Italia, tradizionalmente Paese d’emigrazione, dagli anni Novanta del ‘900 e soprattutto nel periodo precedente la Grande recessione è divenuta terra d’immigrazione: al 1 gennaio 2023 vi erano 5,1 milioni di residenti stranieri. A questo dato, in leggero calo rispetto al 2021, va aggiunto che tra il 2002 e il 2021 vi sono state 1,7 milioni di acquisizioni di cittadinanza. Va d'altra parte anche considerato che negli anni più recenti si osserva, su scala più modesta, una ripresa dell’emigrazione netta dei cittadini: questa è alimentata in parte da nuovi italiani e, in parte, da giovani relativamente più qualificati della media che cercano all’estero una situazione più favorevole (Figura 27, sinistra) [21].

Questa evoluzione ha portato a un’inversione dei flussi finanziari con l’estero legati al lavoro, anche se – come già per le rimesse dei nostri emigrati in passato – l’uso di canali informali di trasferimento dei fondi implica che tali flussi siano solo in parte colti dai valori registrati per i redditi da lavoro e le rimesse nella Bilancia dei pagamenti. Nel complesso, anche nelle stime più generose realizzate dalla Banca mondiale sulla base delle matrici bilaterali di emigrazione [22], questi flussi non raggiungono un punto percentuale di Pil e sono per lo più rappresentati dalle rimesse in senso stretto (nella media degli anni Dieci, circa lo 0,35% del Pil, un livello inferiore rispetto a Francia e Spagna, ma superiore alla Germania). I flussi in entrata (crediti) sono ormai divenuti molto modesti, e sono costituiti in massima parte da redditi dei lavoratori transfrontalieri e in distacco presso imprese italiane all’estero (Figura 27, centro).

L’andamento generale dei flussi in uscita è fortemente condizionato dall’impennata e, dopo il 2011, dalla contrazione delle rimesse verso la Cina [23], mentre l’insieme delle altre destinazioni è complessivamente in crescita, con l’emergere di numerosi paesi (tra i quali il primo è il Bangladesh, con 1,2 miliardi di euro nel 2022) e la riduzione dei flussi verso paesi di immigrazione storica, quali la Romania (da 900 milioni di euro nel 2011 a meno di 500 nel 2022), legata al ciclo di vita dei residenti e a una minor sostituzione con nuovi arrivi, anche in ragione della perdita di attrattività economica dell'Italia (Figura 27, destra).

Figura 27 Acquisizioni di cittadinanza ed emigrazione netta di cittadini italiani (sinistra), stranieri residenti e flussi di rimesse e redditi da lavoro (centro), e composizione geografica delle rimesse (destra). Anni 1995-2022 (cittadinanza ed emigrazione in migliaia; stranieri residenti in milioni; rimesse in miliardi di euro)

L'internazionalizzazione produttiva

Il ruolo molto rilevante delle imprese multinazionali nell’economia italiana e l’internazionalizzazione delle aziende nazionali rappresentano la dimensione più immediatamente leggibile della globalizzazione produttiva che ha caratterizzato gli ultimi decenni, con l’estensione geografica delle catene del valore, che ha dato un forte impulso alla crescita del commercio internazionale.

Ancora nel 1980, il valore complessivo dello stock di investimenti esteri in Italia era pari a meno del 2% del Pil, e quello degli investimenti italiani all’estero era dello stesso ordine di grandezza. Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso e più rapidamente nei decenni successivi, l’internazionalizzazione produttiva dell’Italia è andata crescendo significativamente, anche se a ritmi molto inferiori rispetto alle altre maggiori economie europee: nel 2020, la media tra gli stock di IDE nel Paese e di investimenti italiani all’estero era pari a poco meno del 30% del Pil, contro circa il 40% in Germania e più del 50% in Francia e Spagna. Al tempo stesso, va segnalato come l’Italia sia oggi divenuto un investitore netto, sia pure in misura molto minore rispetto a Francia e Germania (Figura 28) [24].

Figura 28 Gli stock di Investimenti diretti esteri (IDE) in Italia, Francia, Germania e Spagna: media IDE all'interno e all'estero (sinistra), saldo estero-interno (centro) e quota sul totale mondiale (destra). Anni 1980-2021 e media 2019-2021 (percentuali del Pil e sul totale mondiale)

L’orientamento geografico e settoriale degli investimenti diretti all’estero delle maggiori economie dell’Ue presenta alcune similitudini ma anche notevoli differenze. In Italia, come in Francia e Germania, oltre la metà dello stock di IDE è diretta verso l’Ue. Rispetto a questi due Paesi sono invece molto meno rilevanti l’America settentrionale e le economie asiatiche emergenti, mentre sono più elevate le quote di investimenti in Africa (in particolare in Algeria, Egitto e Tunisia), Medio Oriente (negli Emirati arabi e in Arabia saudita), America Latina e, tra le destinazioni europee, in Spagna, Romania e Russia. In Spagna, di converso, circa il 30% dei capitali all’estero è investito in America latina, mentre sono molto minori gli investimenti negli altri paesi dell’Unione e in Asia. Dal punto di vista settoriale, in Italia questo profilo si accompagna a una presenza relativamente elevata nella manifattura (specialmente nel comparto dei macchinari e attrezzature) e nelle costruzioni (Figura 29).

Figura 29 Distribuzione geografica e settoriale dello stock di investimenti diretti all'estero dei Paesi E4. Anni 2021 e 2020 (percentuali sul totale) (a)

Gli IDE si sostanziano nel controllo di imprese: nel 2019 (e nel 2020), le 15 mila imprese a controllo estero contavano in Italia 1,5 milioni di addetti, pari a quasi il 9% del totale, generando una cifra d’affari di oltre 600 miliardi di euro (in calo sotto i 550 nel 2020) e un valore aggiunto di 134 miliardi (122 nel 2020), pari a oltre il 16% del totale. Le attività dei servizi rappresentavano circa i 2/3 di addetti e valore aggiunto. Ancora maggiori sono i contributi alla spesa in R&S (il 26%) e al commercio internazionale di merci. Infatti, le imprese a controllo estero erano responsabili di oltre il 32% dell’export (un peso analogo a Francia e Germania, e minore rispetto alla Spagna), e più della metà dell’import di beni (la quota più elevata tra le grandi economie Ue); a entrambi i flussi contribuiscono in maniera sostanziale gli scambi intra-gruppo, che nel 2019 rappresentavano il 46% sull’export e il 59% sull’import generato da queste imprese, mentre nel 2020 – caratterizzato dalla crisi dell’attività su scala globale – erano scesi al 35,8 e al 57,3% rispettivamente. Nell'ultimo quindicennio, il peso economico delle imprese a controllo estero e soprattutto il loro ruolo negli scambi sono cresciuti fortemente, in parallelo con lo stock di IDE nell’economia (Figure 30).

Gli IDE si sostanziano nel controllo di imprese: nel 2019 (e nel 2020), le 15 mila imprese a controllo estero contavano in Italia 1,5 milioni di addetti, pari a quasi il 9% del totale, generando una cifra d’affari di oltre 600 miliardi di euro (in calo sotto i 550 nel 2020) e un valore aggiunto di 134 miliardi (122 nel 2020), pari a oltre il 16% del totale. Le attività dei servizi rappresentavano circa i 2/3 di addetti e valore aggiunto. Ancora maggiori sono i contributi alla spesa in R&S (il 26%) e al commercio internazionale di merci. Infatti, le imprese a controllo estero sono responsabili di circa il 30% delle esportazioni (un peso analogo a Francia e Germania, e minore rispetto alla Spagna), e di una quota ancora maggiore delle importazioni di beni; a entrambi i flussi contribuiscono in misura notevole gli scambi intra-gruppo (nel 2019 erano pari al 46% sull’export e il 59% sull’import generato da queste imprese, mentre nel 2020 – caratterizzato dalla crisi dell’attività su scala globale – erano scesi al 35,8 e al 57,3% rispettivamente). Nell'ultimo quindicennio, il peso economico e il ruolo negli scambi delle imprese a controllo estero sono cresciuti in maniera sostanziale, in parallelo con lo stock di IDE nell’economia (Figure 30).

Figura 30 Quote delle imprese a controllo estero sul commercio internazionale dei Paesi E4 (sinistra) e sulle principali variabili economiche in Italia (destra). Anni 2021 e 2004-2020 (percentuali sul totale)

Considerando i paesi d’origine delle controllanti, in cima alla classifica per quote di addetti, fatturato, valore aggiunto e spesa in R&S delle imprese controllate in Italia sono gli Stati Uniti, seguiti dalla Francia, dalla Germania e dal Regno Unito: questi quattro paesi, insieme, nel 2020 contavano per circa il 60% di occupazione, valore aggiunto e R&S delle controllate (Figura 31, sinistra).

Le imprese estere a controllo italiano nel 2020 erano circa 24 mila, con 1,7 milioni di addetti (entrambe le cifre in leggera contrazione rispetto al 2019), di cui circa un milione nell’industria - il doppio delle controllate estere in Italia: gli addetti rappresentano il 10,2% di quelli delle imprese residenti in Italia, e il 23% nella manifattura.

L’internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane è particolarmente rilevante (in termini assoluti e come quote sulle variabili economiche settoriali) nel settore estrattivo e, nell’ambito della manifattura, nell’industria automobilistica, in quella dei macchinari e apparecchiature, nella chimica in senso largo (compresa la produzione di prodotti farmaceutici e di materie plastiche) e nella filiera del tessile-abbigliamento-pelletteria. Nei servizi, spiccano le attività finanziarie.

Dal punto di vista geografico, la composizione ricalca a grandi linee quella degli IDE, anche se in questo caso vi sono differenze notevoli tra la distribuzione per quote di addetti e quella per fatturato, in ragione del tipo di attività e delle determinanti dell’investimento, ovvero se indotto dal costo del lavoro piuttosto che da motivazioni di presidio dei mercati e acquisizione di know-how: nel 2020, Stati Uniti, Germania, Francia e Spagna insieme rappresentavano infatti circa il 55% del fatturato delle controllate, ma solo il 28,4% degli addetti. Rispetto alle imprese italiane a controllo estero, la ripartizione geografica dell’internazionalizzazione produttiva delle nostre imprese nazionali ha tratti simili, quali l’intreccio molto forte con gli altri grandi Paesi europei e con gli Stati Uniti, ma è anche molto meno concentrata geograficamente (Figura 31, destra).

Figura 31 Principali paesi di origine delle imprese a controllo estero (sinistra) e di localizzazione delle controllate di imprese italiane (destra). Anno 2020 (quote percentuali di imprese, addetti, fatturato, valore aggiunto e spesa in R&S)

L'internazionalizzazione culturale

L’internazionalizzazione culturale è un aspetto molto ampio e, al tempo stesso, poco definito e difficile da tracciare attraverso le statistiche. Nondimeno, si possono ricavare alcuni elementi di senso comune che testimoniano lo sviluppo dell’integrazione linguistica. In particolare in Italia si sono realizzati progressi sostanziali nell’apprendimento delle lingue, partendo da condizioni molto arretrate: nel 2016, circa i 2/3 degli adulti in età compresa tra i 25 e i 64 anni dichiaravano di conoscere almeno una lingua straniera, con un aumento di circa 6 punti percentuali rispetto al 2011. L’incidenza sale fino a oltre l’80% per la coorte tra 25 e 34 anni, indicando un forte stimolo all’apprendimento delle lingue nelle generazioni più giovani [25].  A confronto con le altre maggiori economie dell’Ue, l’Italia sarebbe seconda solo alla Germania per diffusione dell’apprendimento; d’altra parte, gli adulti che dichiaravano di avere un livello buono o superiore nella lingua straniera meglio conosciuta in Italia era il più basso (il 36%) tra i quattro Paesi considerati (Figura 32).

Figura 32 Lingue parlate per età e genere e conoscenza in Italia (sinistra) e livello di conoscenza buono o superiore di almeno una lingua straniera in Italia, Francia, Germania e Spagna. Anno 2016 e totale 2011 (percentuali di individui)

Un elemento di riflessione più controverso riguarda l’introduzione di vocaboli inglesi nella lingua d’uso corrente, al quale l’italiano è relativamente più esposto rispetto al francese o allo spagnolo, per la sua caratteristica di lingua non protezionistica, e che quando esistono vocaboli corrispondenti può essere considerato una forma di provincialismo culturale. Per avere una misura, tra le 7050 parole che formano il vocabolario di base della lingua italiana pubblicato da Tullio De Mauro, nella prima edizione del 1980 quelle di derivazione inglese erano poco più di 10, mentre nell'edizione del 2016 queste erano salite a 129.

D’altra parte l’immigrazione, in particolare, ha contribuito all’aumento di conoscenza e uso delle lingue straniere anche nella comunicazione quotidiana e, insieme all’evoluzione culturale complessiva del Paese, all’indebolimento relativo nell’uso del dialetto rispetto all’italiano (Figura 33) [26].

Figura 33 Diffusione dell’italiano, del dialetto e di altre lingue per contesto ed età (sinistra; anni 1995-2015) e quota di residenti di lingua madre non italiana e conoscenza di almeno una lingua straniera per età (destra, anno 2015) (valori percentuali)

Se si considerano i movimenti temporanei associati al turismo e allo studio, nel 2019 – prima delle chiusure dovute alla pandemia di Covid-19 – gli arrivi turistici dall’estero erano stati circa 65 milioni, in aumento di quasi il 60% rispetto al 2009, e i viaggi all’estero dei residenti circa 35 milioni. Inoltre, nell’anno accademico 2018-19 oltre 40 mila studenti italiani avevano passato un periodo presso università estere – corrispondenti a circa il 10% dei nuovi iscritti – e oltre 30 mila studenti stranieri avevano frequentato corsi nelle università italiane. D’altra parte, mentre il sistema d’istruzione italiano ha fatto progressi notevoli nell'insegnamento delle lingue straniere, l’Italiano è decisamente la lingua meno studiata tra quelle dei maggiori paesi europei, in un quadro di generale dominanza dell'inglese: lo sceglie infatti appena il 2,2% degli studenti delle scuole superiori dell'Ue27 (essenzialmente in Austria, Croazia, Slovenia e a Malta), contro circa il 20% per Tedesco, Francese e Spagnolo (Figura 34).

Figura 34 Numero di lingue studiate nelle scuole secondarie superiori nei principali paesi europei (sinistra) e lingue studiate più diffuse tra gli studenti dell'Ue27 (destra). Anno 2021 (percentuali di alunni)


[1] Nell’epoca preindustriale, in Europa dominava la visione mercantilistica, secondo la quale la potenza di un paese è direttamente proporzionale all’oro che detiene nei suoi forzieri e, quindi, è necessario esportare ma non importare. Dalla fine del '700, con l'avvio dell'industrializzazione in Inghilterra, si affermano posizioni più favorevoli all'apertura agli scambi. Queste trovarono un corrispettivo teorico nella teoria dei vantaggi assoluti di Adam Smith e poi in quella dei vantaggi comparati di David Ricardo, che prospetta ai paesi coinvolti nel commercio internazionale un aumento di benessere derivante dal guadagno d’efficienza della produzione indiretta. In una prospettiva più attuale, vi sono diversi altri benefici, quali la possibilità di accedere a prodotti tecnologicamente superiori (rilevante nel caso di acquisto di beni d’investimento, che possono in tal modo migliorare la produttività nazionale), il conseguimento di economie di scala grazie all’ampliamento del mercato, l’abbassamento dei costi degli input. Di contro, la protezione della industria nascente è uno degli argomenti forti in favore del protezionismo nell’Ottocento e, per i paesi in via di sviluppo, fino quasi la fine del Novecento. Questa argomentazione, il cui più famoso propugnatore fu Friedrich List (1841) era già stata anticipata negli Stati Uniti dall’allora ministro del tesoro Alexander Hamilton (1790). Considerazioni analoghe si possono muovere per gli investimenti esteri: stimolo per l’economia ospite e fonte di competitività per quella di partenza, oppure perdita di sovranità e drenaggio di profitti per gli uni e perdita di occupazione domestica per gli altri.

[2] Sul processo di industrializzazione post-unitario cfr., tra gli altri, Gomellini e Toniolo (2017) e, in una prospettiva generale sullo sviluppo economico italiano, il volume a cura di Toniolo (2013).

[3] La Tariffa doganale fissata con Decreto del 9 luglio 1859. Il regno Lombardo-Veneto era invece dal 1853 in unione doganale con l’Austria-Ungheria e il Belgio, così come il Ducato di Parma (fino alla denuncia del trattato nel 1857), con scambi liberi all’interno di ciascun regno e una tariffa del 10% per gli scambi tra regni. La Toscana era l’unico altro stato con un regime libero-scambista. Nel Regno delle Due Sicilie la Tariffa doganale (riformata più volte a partire da quella del 1824) aveva un’impostazione complessivamente protezionistica ma finalizzata soprattutto alla fiscalità, non organica nella protezione delle industrie nascenti e spesso con una tassazione più elevata sull’importazione di materie prime rispetto agli output industriali (cfr. Nicali, 1997). 

[4] Questi valori, da considerarsi indicativi, sono tratti dal Federico-Tena World Trade Historical Database, integrato da stime sui dati Istat-Banca d’Italia e dal Compendio di statistiche storiche 1861-1955 dell’Istat. Va segnalato che molte definizioni e misure oggi correnti – tra cui quella di Prodotto interno lordo – sono state concettualizzate e calcolate solo dalla seconda metà del Novecento (v. Nota metodologica). Le cifre riportate si basano quindi su ricostruzioni inevitabilmente incerte, ma che permettono comunque di tracciare gli andamenti e di confrontare Paesi diversi.

[5] Qui definiti come le Sezioni 0-4 della Standard International Classification of Trade (SITC) – cioè cibo e animali vivi (0), bevande e tabacco (1), materiali greggi (2), minerali e prodotti energetici (3), olii animali e vegetali (4) – più la seta (sottogruppo 6511), mentre i prodotti manifatturieri corrispondono alle voci 5-8 (prodotti chimici (5), manufatti (6), macchinari e mezzi di trasporto (7), miscellanea di prodotti manufatti (8).

[6] La seta è un prodotto con caratteristiche agro-zootecniche prevalenti ma, insieme, una componente di tipo manifatturiero. Comprendendo i bozzoli e i cascami, nei primi anni dopo l’unità la seta (esclusi i tessuti e l’abbigliamento) rappresentava anche quasi il 10% dell’import, con una discreta componente intra-industriale nel commercio. Sul ruolo della seta nell’industrializzazione italiana, cfr. Federico (1997)

[7] L’export di grano, proveniente dalle regioni meridionali, diverrà sempre meno competitivo col miglioramento dei trasporti e la concorrenza della Russia, risultando uno dei fattori chiave nell’adozione di tariffe protezionistiche (v. infra, nel testo).

[8] Nella prima parte degli anni Trenta la lira è stata mantenuta sopravvalutata (in particolare dopo la svalutazione di sterlina e dollaro nel 1931 e 1933), attuando contemporaneamente una politica deflazionistica, un aumento dei dazi sulle importazioni e corrispondenti premi di compensazione agli esportatori, l'introduzione del controllo sugli scambi valutari e sui prezzi interni. In questo quadro, l’effetto delle sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia nel 1935 appare non realmente rilevante: durate poco (dal novembre 1935 al luglio 1936) e mai attuate da Stati Uniti e Germania, hanno avuto effetto soprattutto sulla svolta autarchica del regime fascista. La svalutazione della lira a fine 1936 nell'anno successivo ha determinato un'impennata dei valori di entrambi i flussi commerciali e un temporaneo peggioramento dei saldi.

[9] In un quadro di sostanziale stabilità delle superfici coltivate (tra 4,5 e 5,0 milioni di ettari tra il 1870 e il 1939) e inizialmente anche delle rese, la crescita dell’import di grano era inevitabile a fronte della crescita demografica (e, negli anni di guerra, di riduzione della forza lavoro disponibile), nonostante i dazi elevati sul grano lungo quasi tutto il periodo. L’effetto depressivo dei dazi sullo sviluppo di altre colture e attraverso i prezzi sui salari reali è oggetto di critica storica, ma il loro impatto sulla crescita è in genere ritenuto modesto. D’altra parte, i dazi hanno rappresentato una forma importante di gettito fiscale (v. oltre nel testo), più difficile da realizzare con la tassazione diretta. Negli anni successivi la Prima guerra mondiale, la copertura (produzione/consumo) era scesa da valori superiori al 90% fino al 60% circa. Dal 1925, viene realizzata una politica attiva di estensione delle superfici coltivate (attraverso le bonifiche integrali, ma anche a detrimento di altre colture), e di aumento delle rese con la selezione delle sementi: sono questi i cardini della battaglia del grano lanciata dal regime fascista, dieci anni prima della campagna per l’autarchia. La politica portò a un effettivo aumento della produzione del 20% tra il triennio 1924-26 e quello 1934-36 (da 55,4 a 66,6 milioni di quintali) e a una riduzione della dipendenza dalle importazioni, corrispondente però a una riduzione della disponibilità pro capite, e con impatti molto diversi sul territorio.

[10] Sul livello di protezione nel periodo post-unitario, cfr. i contributi in Dormois e Lains (2006), e Federico e Tena Junguito (1998). Sui costi delle tariffe e delle altre barriere per il commercio, cfr. Gomellini (2020). Sulla gestione del cambio, cfr. Rossi Ragazzi (1947).

[11] Sull'emigrazione, la stima di 8,5 milioni si ottiene considerando la ricostruzione della popolazione residente, mentre si puà giungere fino a 13 o addirittura 16 milioni di persone se si utilizza come fonte la serie storica dell’emigrazione (cfr. de Panizza, 2023). Sulle rimesse storiche, la fonte principale è la Indagine statistica sullo sviluppo del reddito nazionale dell’Italia dal 1861 al 1956 (Istat, 1957).

[12] L’entità delle rimesse in questi anni ha certamente facilitato la tenuta del sistema finanziario nella crisi finanziaria del 1907, che in Italia è stata meno intensa ma assai importante nel definire il ruolo della Banca d’Italia (oltre che, con effetti non interamente positivi, l’assetto del mercato borsistico nel corso del ventesimo secolo). Sull’evoluzione della crisi negli Stati Uniti, si veda Tallman e Moen (2014); per il caso dell’Italia, cfr. Vercelli (2022). Sull’emigrazione e l’internazionalizzazione italiana in chiave comparativa cfr. Daudin, Morys e O’Rourke (2008); sulle caratteristiche degli emigrati, le destinazioni e le rimesse, cfr. Gomellini e Ó Gráda (2011).

[13] Il cui caso più noto è quello del Banco di Napoli negli Stati Uniti. Merita tuttavia di essere menzionata anche la Bank of Italy, fondata a San Francisco nel 1904 da Amadeo Giannini con soci in prevalenza italo-americani e operante soprattutto a servizio degli emigrati italiani. Questa è l’antesignana per acquisizione della Bank of America, oggi tra i maggiori conglomerati finanziari degli Stati Uniti, e lo stesso gruppo (Bancitaly) ha fondato la Banca d’America e d’Italia nel 1922 (acquisita come Banca dell’Italia meridionale tre anni prima), la quale ha dato impulso agli esportatori nazionali e, nel secondo dopoguerra, ha gestito una parte cospicua dei fondi del piano Marshall. Sull’avvio dell’impresa di Giannini, cfr. Young (1928)Merita una menzione anche la Bank of Italy fondata nel 1904 a San Francisco soprattutto a servizio degli emigrati italiani da Amadeo Giannini e con soci in prevalenza italo-americani, Questa è infatti l’antesignana (per acquisizione) dell’attuale Bank of America, ovvero il secondo conglomerato finanziario USA per dimensione. Lo stesso gruppo (Bancitaly) ha fondato la Banca d’America e d’Italia nel 1922 (acquisita come Banca dell’Italia meridionale tre anni prima). Questa ha sia dato impulso agli esportatori nazionali e, nel secondo dopoguerra, ha gestito una parte cospicua dei fondi del piano Marshall. Per saperne di più sull’avvio dell’impresa di Giannini, si veda Young (1928).

[14] Per quanto riguarda il primo periodo, nel 1862 le entrate equivalevano a meno dei due terzi della spesa; grazie alla riforma fiscale avviata nel 1864, le entrate raddoppiarono in un decennio, portando a inizio 1876 al pareggio di bilancio. Il debito continuò tuttavia a crescere anche in rapporto al Pil fino quasi la fine del secolo, con una crisi finanziaria importante dopo la vendita dei titoli italiani sul mercato di Parigi durante la guerra commerciale con la Francia, nel 1887. Il debito estero contratto durante la Grande Guerra – essenzialmente con gli Stati Uniti e Regno Unito – pari a circa un quinto del totale, venne rinegoziato con rimborsi ristrutturati su oltre 60 anni nel 1926 e, dopo la conferenza di Losanna del 1932, di fatto cancellato con l’arresto dei pagamenti. Quello interno, in gran parte consolidato forzosamente con l’effetto di scontarne il valore. Per una ricostruzione della componente estera del debito pubblico, cfr. Francese e Pace (2008) e, per il periodo tra le due guerre, Malinkov (2019). Sull’intreccio tra politiche delle alleanze, crisi dei pagamenti e bancaria a cavallo del 1890 cfr. Feis (1930).

[15] In particolare nelle telecomunicazioni, dove già dall’anteguerra operavano la FACE, filiale dell’ITT americana e FATME e SIELTE, entrambe controllate dalla Ericsson svedese. Il peso dell’Italia negli IDE statunitensi nella CEE è cresciuto, contestualmente, dall’8,4% nel 1950 al 15,5% nel 1965.

[16] In particolare, l’organizzazione per la cooperazione economica europea fondata nel 1948 per gestire i fondi dello European Recovery Program (Piano Marshall), antesignana dell’OCSE (attivo dal 1961), promosse l’abolizione dei permessi d’importazione e l’abbassamento delle tariffe tra i membri e al tempo stesso erogò aiuti all’Italia per oltre 1,2 miliardi di dollari dell’epoca, che oltre a stimolare la ricostruzione hanno permesso di attenuare decisamente il problema della disponibilità di valuta estera. Parallelamente, il sistema delle tariffe è stato multilateralizzato attraverso l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), firmato nel 1947 ed esecutivo in Italia a partire dal 30 maggio 1950, precursore dell’Organizzazione mondiale per il commercio (OMC-WTO), attiva dal 1994. La creazione della Comunità economica europea, istituita coi Trattati di Roma del 25 marzo 1957 (insieme con la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), fin dall’inizio prevedeva l’unione doganale (attuata concretamente dal 1968), con l’abolizione dei dazi tra i membri e l’istituzione di un sistema di tariffe comune con l’esterno, e ha offerto un ulteriore, forte impulso agli scambi (v.oltre).

[17] La differenza riflette il maggior incremento nei prezzi dei servizi (che sul Pil incidevano già per oltre metà della spesa) rispetto ai beni e, in particolare, ai beni industriali, che in questo periodo
hanno registrato notevoli incrementi di produttività.

[18] L’attività economica in Italia ha segnato due momenti di caduta nella Grande recessione (nel 2008-2009 e nel 2012) e, complessivamente, ha attraversato un lungo periodo di stagnazione, con una contrazione delle importazioni anche a prezzi correnti. Un andamento analogo ha avuto la Spagna (sull'impatto della Grande recessione nelle maggiori economie europee cfr., tra gli altri, de Panizza et al. 2020). Tra gli elementi che hanno accelerato la perdita di competitività e la delocalizzazione delle produzioni nei settori tradizionali vi è la conclusione dell’Accordo multifibre di limitazione delle importazioni di prodotti tessili e di abbigliamento dai Paesi in via di sviluppo nel gennaio 1995 e, dal 2005, del suo successore che ha governato transizione verso la liberalizzazione del settore, l’Agreement on Textiles and Clothing (ATC).

[19] Applicando la struttura delle esportazioni degli altri paesi alla dinamica settoriale dell’export italiano si avrebbe un miglioramento, per l’intero periodo, dal 4,5% annuo all’4,8% se con quella tedesca o spagnola, e al 5,5% se con quella francese, anche tenendo in conto i cambiamenti occorsi nelle rispettive strutture produttive.

[20] L'indice di dissomiglianza proposto è definito come semisomma delle differenze in valore assoluto tra le quote settoriali di ciascun paese del gruppo E4 rispetto alla media, suddividendo le esportazioni in 19 aggregati di prodotti o pseudo-settori. In simboli, l'indice può scriversi come

{D}= \frac{1}{2}\sum_{i=1}^{19}\mid Q_{i}^{paese}-Q_{i}^{E4}\ |

dove Q­i è la quota in punti percentuali del settore i-esimo nelle esportazioni nazionali (o del gruppo E4). Per costruzione, l’indice varia da 0 nel caso in cui le differenze sono tutte nulle, a 100 nel caso di difformità totale.

[21] L’emigrazione attuale è tracciabile solo per la quota parte che passa per le iscrizioni all’AIRE. Nel 2021 gli italiani residenti all’estero erano pari a circa 5,8 milioni, ma si tratta in larga parte di emigrazione antica, dato che circa il 40% degli iscritti è nato all’estero.

[22] Sul tema, si rimanda a Croce e Oddo (2020), che dà conto anche degli affinamenti metodologici occorsi negli anni Dieci e alle stime della Banca mondiale.

[23] Un fenomeno che speculativamente può riportarsi alla restituzione di prestiti conseguenti l’insediamento, alla inclusione di transazioni camuffate da rimesse o all’esaurimento dei flussi verso le famiglie rimaste in situ (un fenomeno che di solito è collegato ai ricongiungimenti e all’allentamento dei legami) o, all’opposto, al mancato riporto negli anni successivi.

[24] La quota sullo stock mondiale per gli investimenti diretti all’estero (l’1,5%) è poco più della metà rispetto alla quota sull’export, mentre gli IDE nel Paese (l’1,2%) sono inferiori anche rispetto alla Spagna.

[25] Sia pure con le cautele dei piccoli numeri, l’indagine Eurobarometro condotta a marzo 2019 sui giovani tra 15 e 30 anni stima che il 41% dei ragazzi italiani avesse trascorso almeno due settimane all’estero per studio (terzi a livello europeo) e un ulteriore 38% avesse pensato di farlo (Eurobarometro, 2019).

[26] L’emigrazione italiana ha permesso di fare conoscere – almeno come immaginario – il nostro Paese all’estero, ed è sicuramente stata una leva nel promuovere sia il turismo che la gastronomia: insieme alla ricerca qualitativa dei produttori un po’ di merito va anche agli emigrati se l’export agroalimentare italiano è cresciuto fino a portare negli anni più recenti la bilancia di settore in sostanziale pareggio per la prima volta nella storia post-unitaria, salvo casi eccezionali. Per quanto modestamente, pure gli immigrati sono spesso alfieri nazionali all’estero, anche in termini materiali, con l’invio e il trasporto diretto di beni dall’Italia verso i paesi d’origine, che in gran parte sfugge ai flussi commerciali.