Introduzione

Tra il 1861 e il 2022 la popolazione del nostro Paese è più che raddoppiata ai confini attuali e quasi triplicata se si considerano le annessioni territoriali successive del Triveneto dall’impero austro-ungarico e dello Stato Pontificio, dal 1861 ridotto al solo Lazio.

Nel corso di questo periodo, assieme al numero di residenti sono cambiati profondamente anche le caratteristiche e i comportamenti delle persone. L’allungamento della vita e la contrazione della natalità hanno determinato l’aumento del numero di anziani e la riduzione di quello dei giovani. I flussi migratori internazionali hanno contrastato la crescita naturale della popolazione per oltre un secolo, mentre negli ultimi vent’anni ne hanno compensato la diminuzione. Si è infine modificata sostanzialmente la distribuzione degli abitanti sul territorio, con lo sviluppo delle città – in particolare nel Centro-nord – e l’abbandono delle zone più disagiate dell’interno: una tendenza che negli ultimi decenni si è evoluta, con l’espansione delle città satellite nelle aree metropolitane.

Le trasformazioni demografiche nella storia d’Italia qui sono presentate insieme a quelle di Francia, Germania e Spagna, paesi storicamente collegati al nostro per destini e traiettorie. I più curiosi troveranno un accesso immediato ai dati e numerosi spunti di approfondimento.

Quanti siamo?

Al primo gennaio 2022 in Italia risiedono 59 milioni di persone, delle quali oltre 5,1 milioni sono stranieri. I cittadini italiani in totale sono invece circa 60 milioni, dei quali 5,8 milioni sono residenti all’estero. In Germania la popolazione residente è di 83,2 milioni, in Francia 67,8 milioni (65,6 escludendo i Dipartimenti d’oltremare) e in Spagna 47,4 milioni.

La crescita demografica complessiva dal 1861, momento dell’unificazione nazionale, ai confini attuali nel nostro Paese è stata del 125% e in Germania del 119%, contro appena il 75% in Francia e ben il 212% in Spagna (Figura 1a).

In questo arco di tempo sono cambiati profondamente i fattori sottostanti lo sviluppo demografico, e la struttura per età della popolazione: in Italia l'età mediana è salita da circa 24 anni nel 1861 a poco meno di 30 anni nel 1950, fino a circa 47 oggi (la più elevata tra i Paesi dell’Ue27) e, secondo le previsioni demografiche internazionali, crescerà ulteriormente nei decenni a venire (Figura 1b).

In rapporto al territorio, oggi vi sono 196 abitanti per km2 in Italia e 233 in Germania, mentre la densità della popolazione è molto minore in Spagna e Francia metropolitana, rispettivamente pari a 94 e 119 abitanti per km2.

Figura 1a Popolazione residente in Italia, Francia, Germania e Spagna. Anni 1861-2021 (milioni)

Figura 1b Età mediana della popolazione residente in Italia, Francia, Germania e Spagna. Anni 1950-2100 (previsioni) (età in anni)

Dall'Unità alla Grande guerra

Per circa un secolo il ritmo di crescita della popolazione residente in Italia si è mantenuto intorno allo 0,65% medio annuo, con l’eccezione dei periodi bellici. L’effetto della crescita naturale, spesso superiore all’1% annuo, è stato regolato e contenuto dai flussi migratori internazionali. Dalla metà degli anni Sessanta del Novecento la crescita naturale si è rapidamente ridotta, divenendo strutturalmente negativa negli anni Novanta. Per oltre un ventennio, la concomitante inversione dei flussi migratori ha consentito di ritardare la contrazione della popolazione residente, e anzi di farla crescere di oltre 3 milioni, fino al picco di 60,3 milioni nel 2014 (Figura 2).

Figura 2 Popolazione residente (di cui italiani); tassi  di natalità, mortalità, di crescita totale, naturale, e migratorio netto - Anni 1862-2022, 1° gennaio (popolazione in milioni, tassi per mille abitanti)

Al momento dell’Unità, il tasso di natalità è intorno al 40 per mille (‰) annuo e quello di mortalità superiore al 30‰. Nel decennio 1861-1870 oltre un terzo della popolazione ha meno di 15 anni, ma la mortalità nel primo anno di vita rappresenta poco meno della metà dei decessi totali e quasi quattro bambini su dieci non raggiungono il quinto anno d'età.

In quest’epoca l’Italia è un paese rurale: nel 1861 oltre i due terzi della popolazione (il 67,8%) risiedono in centri con meno di 10 mila abitanti. La situazione è simile in Francia, dove con una soglia più bassa (2 mila abitanti), la popolazione rurale risulta del 71,1%.

Dal 1880 la mortalità inizia a ridursi stabilmente, fino a meno del 20‰ annuo nel 1914. La natalità segue lo stesso percorso ma con ritardo, scendendo poco sopra il 30‰ alla vigilia della Prima guerra mondiale. A partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento l’emigrazione controbilancia l’aumento dei tassi di crescita naturale: nel biennio 1912-13 si ha un saldo migratorio netto negativo di oltre 750 mila persone (il 2% circa della popolazione residente). Gli emigranti, che negli anni post-unitari partivano soprattutto da Piemonte, Lombardia e Veneto, dall’ultimo ventennio dell’Ottocento (e ancora di più nel secolo scorso) in maggioranza provengono dalle regioni del Mezzogiorno.

Le guerre e la politica demografica del fascismo

La prima guerra mondiale (1915-18) segna una discontinuità importante: il tasso di natalità scende al 18‰ e quello di mortalità aumenta fino al 35‰ nel 1918, anche per effetto della pandemia influenzale spagnola. Nonostante il contestuale azzeramento dei flussi migratori, per la prima volta dall’Unità d’Italia la popolazione residente si riduce, e nel 1919 è di 600 mila persone inferiore al 1915.

Nel primo dopoguerra natalità e mortalità tornano rapidamente sui livelli precedenti il conflitto, riprendendo poi entrambe la tendenza a diminuire. A partire dal 1925, il regime fascista persegue attivamente l’incremento demografico attraverso la propaganda, politiche per l’infanzia, misure dirette di promozione della natalità (dalla proibizione della vendita di contraccettivi fino alla tassa sul celibato) e provvedimenti volti a ostacolare le partenze e favorire il rientro degli emigrati. Non è possibile leggere l’impatto di queste azioni sugli andamenti demografici, isolandolo dalle tendenze già presenti nei comportamenti sociali e nella sanità, nonché dalle politiche migratorie dei paesi di accoglienza, in particolare le leggi statunitensi che limitano i flussi in entrata dall’Italia.

Nonostante le misure di promozione della natalità, nel ventennio 1921-1940 questa declina dal 31 al 23‰ , anche più velocemente della mortalità, che pure scende dal 18 al 14‰, in particolare grazie alla riduzione della mortalità infantile. D'altra parte, soprattutto negli anni Trenta si riduce il saldo migratorio, che arriva a essere debolmente positivo. Per conseguenza, la popolazione residente cresce a un ritmo medio annuo superiore allo 0,8%, più elevato rispetto ai decenni precedenti.

La seconda guerra mondiale (1940-45), come la precedente, determina un brusco calo della natalità e un nuovo aumento della mortalità. In questo caso tuttavia la popolazione residente continua ad aumentare, sia pure di poco.

Figura 3a Natalità, mortalità, crescita naturale e totale. Anni 1910-1945 (tassi per mille abitanti)

Figura 3b Saldo migratorio con l'estero. Anni 1910-1945 (migliaia di unità)

Il dopoguerra, le migrazioni interne e l'inurbamento

Nel secondo dopoguerra la mortalità riprende a scendere e già nel 1950 raggiunge un tasso intorno al 10‰, mantenuto fino ai giorni nostri: negli ultimi decenni, infatti, il progressivo invecchiamento della popolazione ha compensato i progressi realizzati nella riduzione della mortalità specifica per ciascuna età. Come già al termine della Prima guerra mondiale, la natalità ha un rimbalzo nel biennio successivo al conflitto. Tuttavia, in questo caso non riprende subito la tendenza alla discesa, mantenendosi poco sotto il 20‰ lungo il periodo della ricostruzione e poi del miracolo economico.

Per pochi anni, si osserva anche un aumento della fecondità (misurata attraverso il numero di figli per donna): è il baby boom, con un picco nel 1964, in cui si registrano oltre un milione di nati vivi e 2,7 figli medi per donna (Figura 7a). Il tasso di crescita naturale della popolazione torna a essere contrastato dal saldo migratorio: tra il 1946 e il 1971 al netto dei rientri emigrano complessivamente 2,9 milioni di persone, in prevalenza verso il Nord Europa.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, di crescita economica sostenuta e di sviluppo della manifattura, si verifica un’impennata anche dei flussi migratori interni dalle aree rurali, dal Mezzogiorno e in parte dal Nord-est, soprattutto verso Lombardia, Piemonte e Lazio (Figura 4). Nonostante il Mezzogiorno sia complessivamente caratterizzato da una maggior natalità, le migrazioni interne hanno avuto l’effetto di ridurne il peso demografico, a vantaggio soprattutto delle regioni del Nord-ovest e del Centro.

Figura 4 Saldi migratori interni per ripartizione geografica. Anni 1931-2020 (saldi netti in migliaia)

Al momento dell'Unità Napoli era la città più popolosa del Regno, con 450 mila abitanti, mentre Roma e Milano ne contavano meno di 200 mila (una popolazione lievemente superiore avevano Torino e Palermo). Tuttavia, già a inizio secolo il peso demografico dei centri con meno di 10 mila abitanti scende dal 68% del 1861 al 60%, e fino al 51,2% nel 1931. All’opposto, la popolazione dei 15 comuni più grandi cresce da 1,6 milioni (il 7,5% del totale) nel 1861 a quasi 5 milioni (il 13,1%) nel 1921, e fino a 6,3 milioni (il 15,4%) nel 1931.

Negli anni Trenta l’inurbamento prosegue, nonostante i provvedimenti per limitare l’accesso alla residenza e al lavoro nelle città e favorire la colonizzazione interna (in particolare, le leggi 358/1931 e 1092/1939). Tra il 1931 e il 1936 la quota di popolazione nei comuni fino a 10 mila abitanti si riduce di 1,6 punti percentuali, al 49,6%, mentre i residenti in quelli con oltre 250 mila abitanti crescono di mezzo milione (al 15,8%). Nel 1936 Roma e Milano avevano superato il milione di residenti, Napoli ne contava 850 mila e Genova e Torino oltre 600 mila.

La crescita delle grandi città continua nel periodo della ricostruzione e negli anni del boom economico: il picco dei residenti nei centri con oltre 250 mila abitanti si registra al censimento del 1971, con 11,2 milioni, pari al 20,7% della popolazione totale, mentre la popolazione nei comuni con meno di 10 mila abitanti continua a ridursi, dal 45,1% nel 1951 al 35,4% nel 1971.

Dagli anni Settanta, e più rapidamente in seguito, la popolazione dei comuni più grandi diminuisce, fino a un minimo di 8,8 milioni (il 14,8% del totale) nel 2011 (9 milioni nel 2021), in parte a vantaggio dei comuni metropolitani di cintura, mentre la contrazione demografica nei comuni più piccoli prosegue fino ai giorni nostri (Figura 5).

Figura 5 Popolazione residente per classe di ampiezza demografica dei comuni. Anni 1861-2021 (composizione percentuale)

La transizione demografica

Gli anni ‘70 ed ‘80 sono caratterizzati da una sostanziale riduzione dei flussi migratori verso l’estero e anche di quelli interni. Per la prima volta dall’Unità l’Italia non è più un paese da cui si emigra per cercare maggiore benessere, pur non essendo ancora tra le mete di paesi meno sviluppati. Le modificazioni sociali connesse al più elevato grado di benessere si associano a una sostanziale riduzione della natalità, che scende su valori prossimi o inferiori a quelli della mortalità: nel 1986 la crescita del numero di residenti si arresta per la prima volta dal 1918.

Il compimento della transizione demografica e i suoi effetti sono leggibili attraverso l’invecchiamento della popolazione e la nuova diminuzione della fecondità. Dall’inizio degli anni Ottanta, l’entrata delle coorti più numerose nella popolazione in età di lavoro e la riduzione di quelle di giovani fa diminuire notevolmente l'indice di dipendenza. Questo torna però ad aumentare già dal 1990, fino a circa il 55%, per l’espansione della componente anziana dal 21,5% della popolazione in età di lavoro fino al 37% nel 2021, mentre quella giovane si mantiene poco sopra il 20%. L'età media dei residenti, pari a 32 anni nel 1952, è salita fino a 46,2 anni a inizio 2022, e l’Italia è oggi tra i paesi al mondo con la quota di anziani più elevata insieme a Germania, Spagna e Giappone (Figura 6).

Figura 6 Componenti dell’indice di dipendenza (giovani e anziani). Anni 1861-2022, 1° gennaio (valori percentuali)

Dal 1993 il tasso di crescita naturale diventa strutturalmente negativo, riflettendo una fecondità scesa da tempo al di sotto del livello di sostituzione (circa 2,1 figli per donna), così come in Germania e, soprattutto, in Spagna, mentre la Francia riesce a mantenere livelli più elevati (Figura 7a). Il minimo è raggiunto nel 1995, con meno di 1,2 figli per donna. Il saldo migratorio è già positivo, ma ancora molto modesto; già dal 1992 la quota degli anziani di 65 anni e oltre sulla popolazione supera quella dei giovani con meno di 15 anni.

La speranza di vita alla nascita, che a inizio secolo era poco sopra i 40 anni, supera gli 80 anni già nel 1990 per le donne e nel 2014 per gli uomini, continuando a progredire fino al 2019, mentre nel 2020 la mortalità associata al Covid-19 la riporta indietro di oltre un anno (Figura 7b).

Figura 7a Tasso di fecondità totale (a) in Italia, Francia, Germania e Spagna. Anni 1950-2020

Figura 7b Speranza di vita alla nascita e a 60 anni (età attesa alla morte), per genere. Anni 1901-2021 (*)

L'immigrazione

L'immigrazione inizia a crescere sostanzialmente nella seconda metà degli anni Novanta. Nello stesso periodo riprende anche l’emigrazione dal Mezzogiorno, in crisi, verso il Centro-nord (Figura 4).

Nei primi anni Duemila, l’accelerazione dell’immigrazione legale (che si traduce in residenza anagrafica) determina una ripresa della crescita demografica, concentrata nelle aree urbane economicamente più forti del Paese. La regolarizzazione degli immigrati, introdotta dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (meglio nota come legge Bossi-Fini), fa aumentare di oltre 700mila i permessi di soggiorno in Italia nel 2004, per coloro che già possiedono un contratto di lavoro.

Nel decennio 2005-2014 i residenti crescono di 3,2 milioni grazie all’immigrazione regolare e, anche, alla giovane età e maggior fertilità degli immigrati (Figura 11a). Con un certo ritardo, aumentano anche le acquisizioni di cittadinanza, con un picco di 200 mila nuovi cittadini nel 2016. Si tratta di un’esperienza simile a quella della Spagna e a quella vissuta precedentemente da Francia e Germania (Figure 8a e 8b).

Figura 8a Nuovi permessi di soggiorno in Italia, Francia, Germania e Spagna. Anni 2008-2021 (migliaia)

Figura 8b Acquisizioni di cittadinanza - Italia, Francia, Germania e Spagna. Anni 2000-2020 (migliaia)

La componente straniera nello stesso periodo passa da meno di 2 a quasi 5 milioni di persone e, in rapporto al totale, da meno del 4 a più dell'8% (fino all’8,8% a inizio 2022). La prevalenza di giovani tra gli immigrati (Figura 11) e tra gli stranieri residenti contribuisce anche a rallentare l’invecchiamento della popolazione, nonostante nel tempo anche la struttura per età della popolazione straniera mostri una tendenza analoga (Figura 9).

Figura 9 Struttura per età della popolazione residente al 1° gennaio 2022, per cittadinanza (valori percentuali)

La Grande recessione iniziata nel 2008 ha reso meno attrattiva l’Italia per gli immigrati e, al tempo stesso, ha portato a una discreta ripresa dell’emigrazione tra le coorti giovanili (v. oltre).
A inizio 2021, gli stranieri in Italia sono circa 5,1 milioni e rappresentano l’8,7% della popolazione residente, rispetto all’11,3% in Spagna, il 12,7% in Germania e il 7,7% in Francia, dove però l’immigrazione ha una storia molto più radicata (con riferimento al 2015, solo il 70,4% dei nuovi nati ha entrambi i genitori nati nel Paese). I nati all’estero, compresi i discendenti di emigrati di ritorno, nel 2021 costituivano circa il 18,2% della popolazione residente in Germania, il 15,2% in Spagna, il 13,2% in Francia e il 10,6% in Italia. La riduzione del saldo migratorio, dal 2015 porta a una graduale riduzione della popolazione residente per la prima volta dal 1918 (Figura 2).

L’origine degli stranieri residenti in Italia è nel 47% dei casi europea. Le nazionalità più rappresentate sono Romania (1,1 milioni) e Albania (433 mila), seguite da Marocco (429 mila), Cina (330 mila) e Ucraina (236 mila): questi cinque paesi insieme costituiscono la metà del totale. Le donne sono il 51,2% dei residenti stranieri, con differenze importanti tra le aree di provenienza (vedi grafico), che si intrecciano con gli sbocchi occupazionali prevalenti per genere nelle singole comunità di immigrati (Figura 10a).

La distribuzione territoriale dei cittadini stranieri, come per le migrazioni interne, è fortemente condizionata dalle opportunità di lavoro: oltre l’83% degli stranieri risiede infatti nel Centro-Nord, con un’incidenza sulla popolazione totale assai più elevata rispetto al Mezzogiorno (Figura 10b).

Figura 10a Immigrati per provenienza al 1° gennaio 2022 (valori percentuali)

Figura 10b Popolazione totale e straniera per ripartizione, e incidenza degli stranieri sul totale. 1931 e 1° gennaio 2022 (valori percentuali)

L'emigrazione e gli italiani all'estero

L’emigrazione totale dall’Italia dal 1869 al 2021, per confronto, al netto dei rimpatri è stimabile approssimativamente in 8,5 milioni, considerando la ricostruzione della popolazione residente, e fino a 13 o addirittura 16 milioni di persone se si utilizza come fonte la serie storica dell’emigrazione, che ha però più ampi margini di incertezza. La grande maggioranza dei discendenti degli emigranti italiani ha preso la cittadinanza dei paesi ospitanti.

L’emigrazione italiana è essenzialmente un fenomeno storico. Nondimeno, va segnalata una ripresa discreta negli anni più recenti: tra il 2005 e il 2020, pure se ampiamente compensati dalle registrazioni in anagrafe di cittadini stranieri, gli espatri netti di cittadini italiani sono stati oltre 620 mila (Figure 11a e 11b).

Figura 11a Cittadini stranieri: saldo tra iscrizioni e cancellazioni dall’estero (iscrizioni nette), per fasce d’età. Anni 2005-2020 (migliaia)

Figura 11b Cittadini italiani: iscrizioni e cancellazioni anagrafiche con l’estero, e saldi. Anni 2005-2020 (migliaia)

Si tratta per lo più di giovani (nel biennio 2019-2020 circa il 70% aveva tra i 18 e i 39 anni), con una leggera prevalenza di uomini - ma la quota di donne è cresciuta di circa 10 punti percentuali rispetto al 2011 - e con una incidenza elevata e crescente di laureati (fino al 27% nel 2019-2020), come evidenziato nella rilevazione più recente sui trasferimenti di residenza.

I cittadini italiani iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero (AIRE) a dicembre 2021 sono 5,8 milioni, dei quali il 55% Europa, quasi un terzo in America Latina e poco meno dell’8% negli Stati Uniti e in Canada. Tra i 220 paesi in cui sono residenti, oltre metà dei nostri connazionali è concentrata in Argentina, Germania, Svizzera, Francia e Brasile (Figura 12).

Figura 12 Cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’AIRE, per Paese di residenza al 31 dicembre 2021 (migliaia)

La popolazione degli iscritti all’AIRE comprende i nuovi espatriati che hanno deciso di regolarizzare la propria posizione anagrafica – una pratica associata al tipo di inserimento professionale e alla durata prospettica del periodo all’estero – e l’emigrazione più antica (in alcuni casi discendenti di emigrati che hanno però mantenuto la cittadinanza). Tenuto conto di queste caratteristiche, si può osservare che l’origine geografica degli iscritti AIRE è nel 47% dei casi dal Mezzogiorno, che ha una popolazione pari a un terzo di quella nazionale. In particolare, in nove province del Mezzogiorno e a Belluno in Veneto l’incidenza dei cittadini residenti all’estero iscritti all’AIRE approssima o supera il 30% del totale dei residenti sul territorio e, nel caso di Enna, addirittura il 50%, contro il 9,8% a livello nazionale (Figura 13).

Figura 13 Cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’AIRE, per provincia d’origine al 31 dicembre 2021 (% sui residenti)